25 novembre 2025, partiamo da alcuni semplici dati: nel 2023 in Italia sono stati registrati 334 omicidi, di cui 96 femminicidi (dati Istat). Quasi un terzo del totale.
Per femminicidi non si intende omicidi di donne, le donne uccise sono 117, ma indica il perché sono state uccise. I femminicidi rappresentano solo la punta dell’iceberg: dietro c’è anche un universo di violenze, che spesso non vengono denunciate, perché si ha paura, vergogna, perché mancano gli strumenti, perché ci si sente sole e senza via d’uscita.
I numeri però, non riescono a raccontare tutto ciò che resta sommerso. Esiste una violenza che si radica in forme meno visibili e non per questo meno pericolose: ci indebolisce in modi sottili, si insinua subdolamente. È una violenza fatta di parole, di giudizi sminuenti, di colpevolizzazione, di controllo, ma anche di silenzi imposti, di esclusione e di invisibilizzazione. Spesso non riesce ad emergere e nemmeno ad essere nominata, eppure mina la dignità alla radice, colpisce autonomia e libertà, isola ed imprigiona, e riesce, anche così, a esercitare potere sui nostri corpi.
In questa giornata credo sia importante partire dalle nostre ferite, dai margini da cui guardiamo e viviamo il mondo. Rivendicare le nostre ferite significa rovesciare le narrazioni: la vergogna non deve più appartenere a chi subisce la violenza, ma a chi la compie. Significa anche ribaltare le dinamiche di potere, perché possiamo opporci non solo come singole, ma soprattutto come collettivo.
Le lotte di tutte creano nuove narrazioni, nuove pratiche, nuove possibilità che diventano realtà. Si tratta di rivendicare la nostra presenza nello spazio pubblico anche attraverso la nostra voce e i nostri corpi. Parlare di sé, della propria condizione domestica, familiare, lavorativa, è un atto politico: non sono “frivoli pettegolezzi”, come frequentemente vengono definiti per sminuirne la portata. Non è un caso che spesso la violenza non la si riconosca nemmeno, perché mancano gli strumenti, perché il vissuto non si condivide, perché il tabù ci chiude nella vergogna. Se non abbiamo le parole per nominarla, non sapremo nemmeno come combatterla.
Per questo, prendere parola è un atto politico: far sentire la nostra voce è rompere il silenzio che ci isola. La forza può nascere dalla relazione con le altre. Il nostro contropotere sta nelle relazioni, nello stare insieme, nel collettivo. È lì che si costruiscono nuove possibilità.
